Biografia
Sono nato il 15 ottobre 1955, per puro caso a Blera, nel viterbese, un paese sconosciuto ai più quanto a me. Vivo in Umbria. Ho vaghi e gradevoli ricordi dei primi nove anni di vita quando ero convinto che tutto il mondo, circoscritto in pochi chilometri quadrati di aperta ed isolata campagna, fosse da me agevolmente controllato. Pochi compagni di gioco, ma molta fantasia nell'inventare le giornate che mi si aprivano d'innanzi generose, offrendomi un contatto in simbiosi con una Natura splendida e mutevole col trascorrere delle stagioni. I miei luoghi di frequentazione erano viottoli mal definiti, scoscesi dirupi, fenditure del terreno dove immaginavo vivesse qualche spirito invisibile, e maestose querce sopra cui si poteva con lo sguardo dominare tutto quel mondo.
Dopo i nove anni, le cose cambiarono. Repentinamente. La morte di mio padre costrinse la famiglia a prendere drastiche ma necessarie decisioni; fu così che mi trovai in un collegio maschile per orfani, a Spoleto. Doloroso fu l'adattamento al nuovo ambiente fatto di severe regole e monotoni orari da rispettare. Il silenzio imposto in quegli stanzoni tristi, non era il silenzio armonioso della campagna; le giornate non mi appartenevano più e la splendida Natura era "chiusa" fuori.

Lo studio non alleviava né la solitudine né il disagio con i quali convivevo, ma un certo conforto lo trovavo nel disegnare soggetti vari: tronchi contorti, boscaglie impenetrabili, figure zoomorfe... che mi ridavano per un po' la libertà di spaziare all'aperto e oltrepassare quelle pareti. Cominciavo a capire la natura taumaturgica dell'Arte e vedere nell'Artista una figura di mediatore che trascende la realtà e la proietta in una dimensione ideale. Mi riconobbero questa certa abilità insegnanti e compagni quindi, per naturale cammino, dopo la Licenza Media approdai all'Istituto d'Arte, sezione Scenografia.
Ma negli anni della contestazione la scuola, troppo impegnata nella politica, non offriva molto o non colsi a fondo le opportunità che mi dava. Tuttavia, le numerose assemblee, le dimostrazioni di piazza, gli scioperi (ai quali non era obbligatorio partecipare) mi permettevano di isolarmi (ricordo la sagrestia freddissima della Cappella del collegio) per dipingere a olio. Senza insegnanti. Ed in quelle tele economiche, prendevano forma enormi coleotteri ed insetti mostruosi suggeritemi non so da chi, forse dalla mia stessa inquietudine. Rafforzavo in me la convinzione che l'Artista, per intercessione della Natura fosse interprete del "Bello" e in virtù della sua immaginazione, egli potesse rendere "Fantastico" un mondo tangibile e codificato. Queste sensazioni, istintive nella mia mente dì post adolescente, mi crearono non poche reticenze nell'accettazione della pittura astratta (accesso obbligatorio verso l'arte contemporanea); capivo che questa, entrando nella parte irrazionale dell'esperienza umana, il "Bello" lo superava, il "Fantastico" lo oltrepassava, costruendosi leggi proprie e rifiutando l'oggettività comunicativa. Lo capivo, ma non lo accettavo; e ne ebbi ulteriore conferma quando, dopo la maturità, frequentai per conto mio i Musei e consultai molti libri d'arte. Con la convinzione che nella vita avrei dipinto,
cominciai ad affinare la tecnica e ad impadronirmi dei mezzi. Magritte catturò la mia attenzione: quella capacità di rendere visibile l'invisibile, quel sorprendere, destabilizzare lo spettatore in una sorta di messinscena di oggetti comuni in contesti assurdi mi trovava in linea di pensiero e condivisi con quella pittura qualche anno di lavoro (ne è rimasta traccia tuttora). Poi, con un salto indietro nel tempo, approdai nel mondo dei fiamminghi! Bosch mi accolse nel suo "Giardino delle delizie", conducendomi nei labirinti del suo inconscio fantasmagorico in cui mi trovavo a mio agio e non mi sorprendeva scorgere dietro fiori paradisiaci ventri squamosi e viscidi corpi di lucertola. Con Brueghel mi ritrovai fanciullo: nei campi, nei boschi, negli acciottolati e negli orizzonti infiniti riconobbi gli odori e i sapori della Natura che possedevo, bambino, e dalla quale ero posseduto. Tutta la pittura fiamminga tra Quattrocento e Cinquecento mi inebriò; su quella tecnica prodigiosa sapiente e trasparente mi sono forgiato e quella polifonia di colori incredibili, quegli angoli in ombra, nicchie e scale che si perdono nel buio, costituirono per me un vero laboratorio.
Affinatomi, ma ancora lontano dall'essere raffinato, conobbi Caravaggio.
Donde viene quella luce folgorante che invade corpi, oggetti e panneggi, cavati dal buio più profondo? Quegli anonimi volti, attoniti e trasecolati, la cui pelle trasuda stupore terrore meraviglia, testimoni di avvenimenti più grandi di loro...
Spegni quella luce e tutto si immiserisce e si decompone. Quando vidi dal vero la "Conversione di Paolo", mi commossi fino alle lacrime.
Poi Rembrandt. Con lui, la luce più che provenire dall'esterno, sembra impastata coi colori stessi e i suoi personaggi godono, come gli astri, di luce propria. Turner mi ha regalato ulteriori gioie; per cogliere la suggestione delle sue atmosfere l'occhio deve essere bene allenato. Qui la luce, con avvolgente liquidità, avviluppa i corpi filtrando in ogni fibra, senza scampo. Friedrich mi ha fatto comprendere l'essenzialità, nella pittura; spesso, solo con me stesso ho vagato in quella "Abbazia nel querceto", rattrappito nella fredda nebbia invernale. I suoi paesaggi sono spazi infiniti; destano un lieve senso di malinconia e di turbamento e sebbene siano eseguiti con un altissimo grado di perfezione tecnica, più dell'occhio, colpiscono l'animo.
Questi maestri e molti altri mi hanno formato, e adesso mi ritrovo ad essere un pittore realista con sconfinamenti iperrealisti, surrealisti e simbolisti, in un mondo artistico e contemporaneo che è tutto questo e la sua negazione. Nella consapevolezza che ogni pittore sia figlio del suo tempo, e per questo mai fuori tendenza se convinto di ció che fa, ritengo comunque che abbia l'obbligo morale di migliorarsi ulteriormente, e per se stesso e per gli altri.

Aurelio Bruni